Le calchere, una traccia dell’ingegnosità
dei nostri avi

Chiasera S.

 

In un territorio povero come la Vallarsa, solo lo spirito di iniziativa, la tenacia della sua gente e la sua capacità di sfruttare ogni modesta possibilità di ricavo poterono consentire a questa popolazione di vivere dignitosamente e di procurarsi il necessario, fino al momento in cui il “miracolo economico” atterrò anche a Rovereto.
I fili, le corde, le teleferiche, la fornace (coppaia) sotto Valmorbia, i mulini e le officine dei fabbri lungo il Leno, le calchere in prossimità dei vari paesi, le tracce di antichi forni e carbonaie costituiscono alcune testimonianze di questa storia di fatica e di intelligente operosità.
Alcuni di questi manufatti sono ormai poco più che reperti di un’archeologia primitiva; le intemperie, la guerra, l’abbandono li hanno fortemente compromessi. E, tuttavia, il loro significato torna ad affascinare le generazioni di oggi, in particolare quelli che conservano tra i ricordi d’infanzia questo spaccato di vita.
Così, perché il tempo non cancelli le orme di un passato nemmeno troppo lontano, il Comune di Vallarsa o gruppi spontanei di persone hanno riportato alla luce alcuni siti interessanti.
E’ il caso di antiche “calchere” usate per ottenere la calce e collocate dove esistevano alcune condizioni favorevoli: vicinanza a pietraie (non tutti i sassi vanno bene!), detriti di falda o alveo di torrente; abbondanza di frascame; buona strada di accesso, possibilità di avere nei pressi della calchera un filo per il trasporto delle fascine.
La calchera era costituita da una camera circolare a tino, generalmente del diametro di 3-5 ml. Ed altezza di 3-4 ml., con bocca del focolare a valle e caricamento del materiale dall’alto. Lo scarico avveniva dalla stessa bocca a valle.
Per prolungare la durata del manufatto, la parete interna -in vista di una cottura- veniva protetta con un triplice intonaco di malta. Se si osserva, la calchera era solitamente interrata, a parte la bocca, e il materiale esterno alla costruzione per garantire un buon contenimento del calore doveva essere terra (non sabbia o ghiaia).
A seconda della grandezza, una calchera poteva fornire dai 100 ai 500 q.li di calce.
Il fuoco continuo, alimentato con fasci di legna (i tronchi venivano venduti sulla piazza di Rovereto – vedi Piazza della pesa), doveva bruciare con la stessa intensità per 7, 8 giorni per cuocere i sassi e, solo quando dagli strati superiori salivano fiammelle color zolfo, la calchera era cotta.
Si racconta che la cottura di una calchera sulla sponda sinistra richiedeva qualche giorno in più di fuoco, il motivo non è mai stato appurato o almeno non si conosce.
Come per la costruzione, anche per la verifica del grado di cottura della calchera, in ogni paese c’era qualcuno esperto che veniva richiesto della sua prestazione.
A Valmorbia maestri costruttori erano Giuseppe Zoner e “el Franchi” delle Tezze; mentre un esperto nel valutare la cottura era considerato Arcadio Dosso, morto – per tragico incidente – proprio in tale circostanza.
Una calchera poteva servire per 3, 4 procedimenti di cottura, se non era adeguatamente protetta internamente da un intonaco di malta; poi doveva essere abbandonata o rifatta perché il calore altissimo macerava insieme ai sassi per la calce, i sassi della costruzione.
La stagione delle calchere era la primavera, a conclusione del lavoro dei boschi; normalmente si cuoceva una calchera quando si era deciso di porre mano alla costruzione o all’ampliamento di una casa e allora, cessato il fuoco e raffreddato l’impianto, la calce viva veniva buttata in una apposita fossa perché, nell’acqua, potesse sciogliere e divenire una poltiglia cremosa da mescolare alla sabbia (calce spenta) per ottenere la malta.
Il “latte” di calce serviva ad imbiancare (ogni famiglia possedeva la sua “busa dela calzina” per conservare la calce spenta); con alcuni sassi cotti e messi da parte, si otteneva la “calzina de gala” con la quale si disinfettavano stalle, luoghi di frequentazione pubblica e si proteggeva -mista a verderame- il frumento da semina dai parassiti contenuti nella terra.
Altre volte la calchera rappresentava un’entrata per la famiglia: allora, preventivamente, il proprietario della calchera o chi la chiedeva in uso, saggiava la richiesta di calce sul mercato per poter lavorare a colpo sicuro.
Il trasporto avveniva con slitte e poi col carro, in grandi “bene”.
Dato il grosso impegno che la cottura di una calchera richiedeva, solitamente, se la famiglia non poteva contare su diversi maschi adulti, si chiedeva la collaborazione di altri uomini ai quali restituire la prestazione d’opera in altra circostanza di bisogno.

Valmorbia e le sue frazioni avevano diverse calchere, proprietà di privati; si ha notizia di queste:

– tre lungo la strada in località Prache (alle Calchere): quella del “Franchi”, quella dei Zoneri e quella che sorge sulla proprietà delle sorelle Maria e Rosalia Zoner.
La meglio conservata sorge sulla proprietà di Zoner Amalia ved. Chiasera. Per vincolo ereditario la calchera può essere usufruita dalle famiglie discendenti dal defunto Antonio Zoner.
Altre calchere si trovavano:
– una poco prima del tovo della Farareibe;
– una ai piedi del tovo che scende dal Corno al punto di congiungimento con la Valle della Trappola;
– una sotto “el filo vecio”;
– una in fondo alla valle, poco più su della strada statale, di proprietà dei “Leri”;
– una in località “Teza” sopra Tezze, originariamente di proprietà della famiglia Cobbe di Zocchio, poi passata alla famiglia Dosso Giovanni;
– qualche altra calchera si trovava a monte della frazione Dosso (sopra la casa di Egidio Dosso) e lungo la strada militare che va al Forte (forse di proprietà delle famiglie Plazzer Federico e Dosso Giuseppina); un’altra fu costruita negli anni ’30 sul pianoro del Forte per utilizzare la legna da ardere dei boschi soprastanti e quella di mugo, trasportata a valle -con un filo- dallo Spil e dalle Buse. La calchera è proprietà della famiglia Plazzer Federico.
Si ha poi notizia e rimangono le rovine di altre piccole calchere, familiari, utilizzate per ottenere quantità più modeste di calce (100 – 150 q.li):
– una sul Covel in località Rovri;
– due il località Orlaite (sopra la “Prof”).
La frazione di Zocchio aveva le sue calchere lungo la strada “vecchia” che collega questa frazione ad Anghebeni, in mezzo ai boschi di pino.
Una calchera di dimensioni ordinarie e ancora oggi ben conservata esiste da gran tempo anche a Malga Cheserle; di proprietà comunale, poteva essere chiesta in affitto.
Ascoltando alcune testimonianze, sembra di poter dire che le calchere di Valmorbia, o almeno alcune di queste, furono usate fino agli anni ’50 quando l’immissione sul mercato di un nuovo materiale chimico legante per la preparazione della malta (la calce idraulica) e la possibilità per la manodopera adulta di collocarsi nelle nuove industrie roveretane tolsero a questi manufatti la primitiva rilevanza.