Lubiana. 8/9/43

8/9/43 Lubiana.

Alle ore 20 giunge notizia che l’Italia ha chiesto l’armistizio. Costernazione. La radio diffonde il Comunicato Badoglio e altri. Al comando di Regg.to si attendono ordini. Passano le ore della notte, tutti pronti a fronteggiare la situazione. Scrivo a Itala e alla mamma, tramite Turchetto. Truppe t. vanno occupando la città, premendo per il disarmo e la consegna delle caserme. Sempre in attesa di ordini, come ci è stato detto.

Non lascio neppure per un attimo, nella notte e nel mattino seguente, il mio posto, con la segreta speranza che giunga l’ordine di opporre la voce del cannone all’infame azione dei tedeschi.

Ma quest’ordine non viene, ed a noi la cosa sembra incomprensibile. Le ore passano, cariche di incognite, e si ha sempre più la sensazione che i Comandi superiori italiani, pur tentando di temporeggiare, perdano la loro capacità di decisione. Verso l’alba del 9 mando a prendere in casa il sacco alpino con il più necessario.

Alle 5 Turchetto parte per la licenza e gli affido un sacco. Più tardi il signor Strancar passa sotto la finestra del comando, spinto da affettuoso interessamento. Alle 9 una compagnia di SS va disponendosi attorno alla caserma, e per quanto cerchi di discutere l’occupazione e il disarmo, il colonnello riesce a ritardarne l’esecuzione, a motivo degli ordini che si attendono. Gli ufficiali, in massima, possono pensare anche al proprio bagaglio, ma a me ciò è negato dalle circostanze. Sulle 11 giunge dal Comdo Divisione il Ten. Zanelli che reca l’ordine scritto, firmato Gen. Lubrano, di consegnare le armi.

Nel primo pomeriggio si procede alla consegna in un’atmosfera di fredda correttezza da ambo le parti, i volti segnati da doloroso stupore, senza che ci sia dato di comprendere cosa deciderà di noi l’ex prepotente alleato, che si sforza, con l’arma della menzogna, a farci capire che dopo un controllo ci sarà concesso di raggiungere le nostre case in Patria.
Verso le 17 giunge inaspettato l’ordine di “marciare”; gli ufficiali in autocarro e gli artiglieri in lunga teoria lasciano la caserma Duca d’Aosta, ed in essa le cose che di tre anni avevano avuto carissime: i cannoni i cavalli e il loro orgoglio di cravatte rosse; la fierezza di soldati tante volte dimostrata, da tutti, in mille perigliose circostanze, cede, in quell’ora tragica, alla piena dei tristissimi sentimenti e presentimenti. Amarissime lacrime solcano il volto di tutti noi, che fummo un bellissimo reggimento e d’un attimo siamo ridotti a massa anonima di prigionieri della brutalità tedesca.

Ho il conforto di portar con me, affidatami dal mio colonnello, la bandiera del 1o Artiglieria Cacciatori delle Alpi – ammainata per colpo di avversa fortuna, ma mai vinta. La custodirò gelosamente nascosta, con l’inesprimibile certezza che un giorno la riporterò a Foligno, nuovamente ridata alla Patria salva.

Dal parco di Tivoli, gremito di sloveni in gran parte dolorosamente impressionati per l’infamia consumata dai tedeschi nei nostri confronti, veniamo condotti in torpedone nella vicina Slovenia tedesca, a S.Vid, dove veniamo rinchiusi nel campo sportivo, per passarvi la notte all’addiaccio, guardati dalle baionette tedesche.

Ho steso la brandina, Concutelli Don Guerriero e gli altri amici sono accovacciati sull’erba umida di rugiada. Il colonnello e gli altri uff. sup. lasciano a notte alta il prato per essere ospitati, si dice in una caserma. Presto una coperta ed un telo a Sala, che l’indomani mattina taglia insalutato ospite la corda per rientrare a Lubiana. Ci cibiamo di poca galletta e scatolette, messe previdentemente da parte.

Parliamo a lungo della possibilità di fuggire, ora che con la separazione dai nostri artiglieri ci sentiamo moralmente sciolti dal vincolo di condividere con essi la sorte, motivo questo che ci aveva trattenuti dal fuggire quando ciò si sarebbe potuto fare.

Il pensiero dei miei cari lontani è costantemente vivo in tutto il suo lancinante dolore; cerco con ogni mezzo di spedire a Itala un biglietto, per tranquillizzarla; c’è anche una donna al campo, che forse raggiungerà Trieste, e le affido una cartolina da imbucare.

Si procede, presi gli ordini dal Colonnello Comandante, alla distruzione della cassa del reggimento, con distribuzione del fondo liquido e firma da parte di ciascun ufficiale. Mi sono stare assegnate 6 mila lire.

Anche la giornata del 10 rimaniamo nel prato, in precarie condizioni igieniche; un ufficiale delle S.S esegue un cortometraggio; i contadini sloveni, di ritorno dai campi, lanciano al di là dallo steccato, di tanto in tanto, delle patate, frutta e pane; a noi l’umiliante consolazione di accettare, ai tedeschi di guardia il livore di non riuscire a impedire questi atti di solidarietà umana. Ed a sera quando già siamo rassegnati a trascorrere un’altra notte sotto le stelle, ci viene concesso di trasferirci nella caserma ove già erano gli ufficiali generali e superiori. Vi rimaniamo l’11 il 12 e il 13, sempre sulle mosse per una partenza in treno, alla volta, si dice, di Salisburgo. Da Lubiana giungono molte voci, e tante strampalate. Un console della milizia sta organizzando dei reparti italiani per la collaborazione con i tedeschi, che per ottener ciò usano ed abusano dell’arma della menzogna. Arriva a S.Vid un sottot. tedesco che chiede di parlare a noi tutti, e ci propone di “aderire” o, in altre parole, di “optare” per combattere a fianco dei “camerati” tedeschi. I generali presenti additano la strada da seguire nella circostanza: nessuna adesione corona il bel successo di questa prima azione di asservimento. Io personalmente sento che il problema non interessa nè interesserà mai me, per quante proposte intendano farmi. Mi sovviene dei sentimenti che animano la mia consorte, cresciuta in clima di puro patriottismo trentino, e mi riprometto di non considerare mai il caso di collaborare, in via volontaria, con questo popolo di oppressori e prepotenti, che all’Italia non porterà che lutti e sventure. E un sentimento di orgoglio si leva, sopra tutti, in me, d’essere un buon italiano ed un buon trentino particolarmente non dimentico del nostro passato.

Un soldato tedesco, certo Vincenzo di Brunico (amministratore di Di Stefano) mi aiuta come può per gli alimenti. L’11 partono con un convoglio i colleghi della Divisione Cacciatori, il 12 gli ufficiali generali e superiori, compreso il mio colonnello, e gli amici del I° Gruppo. Il caseggiato, già seminario che sa i patimenti di molti prigionieri jugoslavi, ospita attualmente un gruppo di giovanissimi allievi della polizia tedesca; i dirigenti nazisti non risparmiano maltrattamenti a qualche nostro ufficiale. Lavoratori francesi e sloveni addetti alla fattoria del “Seminario” solidarizzano con noi e ci procurano quanto è possibile, sfidando le ire del teutone. Vedo giungere il T.Col. Canino, a bordo d’una Spa L.39, ormai privato del suo magnifico battaglione di cravatte rosse ardite. Il Dott. Matteucci rimane a collaborare come sanitario e Don Guerriero, afflitto da un ascesso alla gola viene ricoverato nell’ospedale di Lubiana. Perdiamo così due cari amici.
Il 13 sera giunge l’ordine di partenza; carichi dei nostri bagagli, che il tedesco non pensa a far trasportare, neppure i più pesanti, arriviamo alla stazione contemporaneamente ad un gruppo di ufficiali catturati a Pola, e qui trasportati a mezzo di torpedoni. Occupiamo, in 32, un vagone bestiame già adibito a trasporto cemento, il che ci condanna a viaggiare con gli abiti sporchi e con le gole secche di polvere; più tardi avremo nel vagone anche un gruppo di 5 soldati, sconosciuti, che interpretando a modo loro la sciagura dell’armistizio, hanno dimenticato i doveri della disciplina nei confronti degli ufficiali.
Nella notte del 14 il treno si muove da S.Vid e per quattro giorni e quattro notti viaggiamo verso l’ignoto in un inenarrabile disagio materiale e spirituale.

Attraverso la Slovenia e l’Austria (Klagenfurt – Villacco – Salisburgo) riceviamo innumeri prove di solidarietà e di simpatia da parte della popolazione, che si prodiga ad offrire pane e frutta ai nostri soldati, a dispetto dei teutoni della scorta, che non riescono a sfogare il loro livore che gridando e sparando continuamente, per fortuna a vuoto. Solo un soldato austriaco, che conosce bene l’italiano, costituisce eccezione e coglie ogni momento possibile per raccomandarci, con la disciplina, la pazienza, e per aiutarci come può.

Entrati in territorio germanico, per Monaco, Lipsia e Posen raggiungiamo Thorn, nel corridoio polacco, nel primo pomeriggio del 17 settembre. Il rigore s’era accentuato col proseguire del viaggio, attraverso le regioni del grande Reich. Chiusi nel vagone con catenaccio e lucchetto si aveva un bel pregare di aprire, durante qualcuna delle frequenti fermate in piena campagna o nelle stazioni secondarie, per soddisfare a inderogabili bisogni corporali; tutto era vano. Solo ogni 24 ore, e forse di più, quando era stabilito rigorosamente, gli sportelli s’aprivano con rumore di ferraglia. E le grida di far presto ed i modi degli aguzzini tedeschi erano oltre ogni dire offensivi ed avvilenti.
Dagli alti finestrini guardavamo con occhio assente un paesaggio ovunque uguale: campagne nerastre, fabbriche nerastre, case nerastre; e nelle stazioni, ovunque, sguardi freddi dei viaggiatori civili, non molti a dir il vero, e insolenti sorrisi intenzionali di qualcuno che ci mostrava i giornali e ci qualificava traditori.
Anche nel corso di questo doloroso viaggio ch’era una vera e propria deportazione (una minestra di miglio a Klagenfurt ed una analoga, più un te a Lipsia) la preoccupazione sempre presente è stata quella di trovar un mezzo per far sapere a Itala che ero vivo, che non correvo pericoli, che stesse tranquilla; e vinco l’innata ripugnanza, parlo con i tedeschi, fornisco l’indirizzo di casa sacrificando denaro e oggetti, nella segreta speranza che qualcuno dei tentativi abbia ad aver successo.
Quello della corrispondenza con Itala sarà anche in seguito e fino al 10 dicembre, la croce di gran lunga più dolorosa a portare, tenuto conto delle preoccupanti condizioni fisiche e morali in cui ho lasciato quella povera donna ai primi di settembre, dopo una lunga serie di malanni che ne avevano infranto la pur notevole sua forza di carattere e di nervi.
Chissà se un giorno avrò la consolazione di rivedere, gelosamente custoditi da Itala, quei foglietti, scritti in fretta, talvolta in tedesco, nei quali ho cercato di mettere tutta l’anima perchè Itala capisse la mia angoscia e il mio affetto?
Voglio pensare di sì.

THORN

17.9 – 30.9.43

 

Un indice rivelatore che siamo giunti a destinazione ci è dato da una grande scritta sulla parete di una baracchetta, ch’è nei pressi dello scalo ferroviario: “Abort – Evacuatorio”.
Il luogo dà l’impressione d’un grosso villaggio più che d’una città; un’antenna radio, molto alta, case nerastre, qualche negozio spoglio, visi dietro ai vetri; polacchi con stivaloni e berretto con visiera, che si soffermano ad osservarci, un po’ intimoriti dalla possibile reazione tedesca, ci esprimono nascostamente la loro simpatia. Un piccolo reparto di invasori passa cantando in coro, come obbedendo ad un ordine, una stereotipata marcia.

Bagaglio in spalla, inquadrati per cinque (sarà quella la formazione classica di noi Krigsgefaugenen: zu fünf) attraversiamo il centro della città e raggiungiamo lo Stammlager XXA dopo 4 chilometri circa, stanchi ed abbattuti. Campo immenso, nel quale mi si dice più tardi – sono morti 100mila russi; cinto da più ordini di massicci reticolati, con le caratteristiche baracchette – vedetta sopraelevate a mo’ di palafitte, dalle quali un uomo in elmetto vigila giorno e notte, assistito dalla mitragliatrice e dal riflettore. Terra sabbiosa, mancanza assoluta di alberi.
Pernottiamo, senza che nessuno abbia pensato a distribuirci qualcosa, foss’anche un te, in una baracca su tavolacci a tre ordini.

L’indomani, sempre digiuni, attendiamo lungamente le operazioni di schedatura, assegnazione del piastrino con relativo numero di matricola (28097) versamento denari e controllo bagagli con conseguente sequestro di ciò che può far comodo ai tedeschi – sia come individui che come organizzazione militare. Sulla scheda figurerà anche l’impronta digitale. L’impressione per il rigore usato nel controllo ci tiene in disagio tutto il giorno; riesco a nascondere sotterrandola, la lancia della bandiera del reggimento, mentre il drappo tricolore è portato, sotto gli abiti dal Tenente Concutelli al quale affido il sacro simbolo per l’opportunità di dividere in due il rischio di perdere qualcosa.

Solo due giorni dopo, essendo andati a finire in altro settore del campo, potrò inviare il Tenente Curti, che gode della libertà limitata degli interpreti, al luogo convenuto per il recupero del simbolico metallo.

Ormai matricolati e visitati raggiungiamo, ed è ormai sera, il posto assegnatoci in una baracca del settore Revier; è troppo tardi perchè ci sia distribuito il tozzo di pane ed i 20 grammi di margarina concessoci – bontà loro – dai tedeschi. E’ stato tutto consumato dai colleghi che ci hanno preceduto nella sistemazione, ed a noi non resta che spartirci fraternamente un pezzo di galletta.

Ho versato al comando del campo, e ne ho avuto ricevuta, le seguenti somme personali: Lit. 6960.
e Marchi ted. 60.

a parte ho versato, e di ciò non ho avuto alcuna ricevuta perchè trattasi di denaro da me denunciato come appartenente all’Amministrazione del R. Esercito, Lit. 9470.
in mio possesso come fondo riservato a disposizione del Colonnello Comandante e utili dello spaccio fino a tutto il mese d’agosto 1943. Non valgono le mie proteste per avere un qualsiasi documento di ricevuta; il sottufficiale tedesco dice che è roba sequestrata, come i teli tenda e l’altro materiale dell’Amministrazione.

Abbiamo passato giorni neri al campo di Thorn, sopratutto per la deficente alimentazione e per malo trattamento morale. Un bicchiere d’acqua che chiamano the, talvolta alle 7 talvolta alle 9, spesso neppure caldo, spesso neppure arrivava, una minestra forse alle 11 ma forse anche alle 16, composta di poco più di mezzo litro d’acqua bollita, in cui navigavano non ancora cotte, poche foglie di cavolo, o qualche po’ di milio, una volta rape essicate, una volta dei funghi; e sempre odor di bruciato, pezzi di legno, carboni, e maledetta sabbia, che scricchiolava sotto i denti. Un pezzo di pane a sera, con margarina; una volta formaggio; una volta marmellata fatta di pomodoro addolcito; il tutto in misura assai scarsa, e sopratutto l’assillante incertezza che si dovesse, per una causa qualsiasi, restar senza.

Ma è passata.

Quanto al trattamento morale e assistenziale, nessun cenno, nè il primo giorno nè l’ultimo, di organizzazione dei servizi o di interessamento a nostro favore. Nulla ci è mai stato distribuito, se si eccettua il saccone di filo di carta, con pochissimi truccioli di legno.
A qualche ufficiale che spinto dalla fame si avvicinava alla baracca cucina, unica per 20 mila sventurati, non sono stati risparmiati spintoni e scudisciate accompagnati da volgarissime espressioni. E se qualche soldato, spinto dallo stesso bisogno, indugiava nel piazzale delle cucine per cercar di raccattare un osso o qualche buccia di patata, o una foglia di cavolo, interveniva qualcuno dei soldati tedeschi che per lo speciale servizio aveva in consegna un cane poliziotto, e lo aizzava contro il malcapitato, pronto ad azzannnarlo alle reni se non riusciva a fuggire.

La giornata passava triste e lentissima in baracca, dove avevamo preso alloggio noi 28 Cravatte rosse del 1o Artiglieria Cacciatori. Un tavolo, ferocemente accaparrato dai giocatori di carte, i castelli biposto, una stufa di mattoni al centro costituiscono tutto quanto il nostro patrimonio; c’era la luce elettrica. Marras, che più degli altri risente di questa limitata possibilità di vita, è il più anziano e come tale nostro capo camerata; Mattioli, sempre generoso, m’ha dato una camicia di flanella, utilissima; in questi giorni sarà padre d’un bimbo che non potrà intanto conoscere. Cosentini sempre molto serio e “pignolo” si occupa di distribuzione viveri e si lascia crescere il pizzo. Pardini il lucchese sempre rumoroso e molto affamato; l’avvocato Pampaloni che nasconde, sotto la costante, sorridente calma, l’angoscia e le preoccupazioni comuni. Tandone sempre loquace e testardo, che nelle discussioni sostiene per spirito di contraddizione certi argomenti che non stanno nè in cielo nè in terra e si piglia gli epiteti più volgarmente espressivi. Il piccolo Curti, “amico fratello” di Pecchioli, che resterà al campo di Thorn quale interprete, mentre il secondo, caro ed affezionato amico, sarà con me più tardi all’ufficio posta del campo di Cholm. Corsini lo svizzero, nipote del dott. Perini Direttore dell’ospedale italiano di Lugano, che è legato da particolare amicizia per Bargiacchi e come il maestro al discepolo, non gli risparmia ammaestramenti e rimproveri.

Il buon Spizi silenzioso ed educato, cravatta rossa ad honorem. L’ottimo Megale che non ama le discussioni e declama Dante, introduttore di “Triste Domenica”. Placci detto Budienni per somiglianza somatica, Delpari silenzioso e bravo.

Raicevich il figlio del campione di lotta, gigante ormai debellato per fame. L’ing. Ricci sposo dell’ultima ora, disordinato e ingegnoso, Cannella spregiudicato e linguacciuto.
Concutelli infine, a me carissimo tra tutti i bravi amici, ancora ragazzo e pur così assennato.

Gli abitatori del piano alto dei castelli sono gli angioletti; io “arcangelo”, per via della brandina che m’innalza ancora su tutti, Pecchioli aiutante Maggiore che a sera chiama l’appello.

Il 22 settembre siamo stati adunati per sentire la parola di due individui (l’uno, si diceva, già ambasciatore o console di S.M. il Re a Danzica e l’altro il Segretario del Fascio di quella città) i quali, a detta loro spontaneamente, ma in effetti comandati dal teutone, venivano tra noi per portarci una parola di conforto e per proporci di aderire al governo fascista entrando a far parte delle “alleate” forze armate tedesche, e precisamente in reparti delle SS. Condizioni? Nessuna. Garanzie? Idem. I due si sono spremute le meningi per cercare di convincerci che quella era la via onorevole da seguire, ed hanno avuto il bel risultato di 20 optanti su 1200 internati.

Correvano per il campo, quel giorno, le più svariate voci circa la futura sorte che sarebbe stata riservata ai non aderenti, e c’era chi scherzava su un possibile invio alla “fossa di Katin” … Io non ho prestato alcuna attenzione alle molte chiacchere che sono state fatte, ma ricordo che ad un certo momento il sentimento di odio contro il secolare nemico è esploso, ed ho detto a Concutelli che non avrei mai considerato neppure per un istante l’eventualità di optare, e che mi sarei reputato contento solo che avessi trovato uno che potesse dire un giorno a mia moglie ed a mio figlio che ero morto ma che non mi ero venduto.

Sarà la trista caratteristica di questa prigionia il porre alle nostre coscienze il problema dell’adesione o meno; sarà una continua, sadica azione ricattatoria per piegarci, e qualcuno dei più deboli si piegherà; Ma non i più sani, i più forti di morale e di esperienza.

Ho lavorato otto giorni, al campo di Thorn, quale interprete per aiutare le migliaia di nostri soldati durante il controllo e l’immatricolazione; ho avuto così la gioia di poter dire a molti una buona parola, un consiglio, un incoraggiamento nella loro triste condizione. Ed ho potuto venir incontro anche a qualche compagno, cui potevo lasciare parte della mia razione viveri, dato che io ricevevo, sia pure a prezzo di molte umiliazioni,qualcosa in cucina. Ricorderò la dattilografa polacca che volle qualche volta dividere con me un pane e qualche pomodoro che costituivano la sua colazione. Di lei conservo un pettine, gentilmente procuratomi in seguito alla rottura del mio personale.

Il 30 settembre dopo una nuova visita al bagaglio abbiamo lasciato il campo, destinati a quello, si diceva di Tschenstochau. Ci è toccato assistere impotenti, all’ultimo momento, a questo brutale episodio: un energumeno tedesco, alto e grosso, vedendo un soldato italiano che gironzolava per le baracche da noi abbandonate, forse per cercarvi qualche povera cosetta che gli potesse essere utile, lo rincorse e lo batté‚ a sangue, ripetutamente, con un’assicella dei letti …
All’uscita del recinto il cappellano che tanto aveva fatto e che intendeva rimanere per l’assistenza ai 15mila nostri soldati, ci disse parole di augurio e di benedizione.
Il viaggio per la stazione ci è sembrato, questa volta, più faticoso; i nostri corpi erano già notevolmente indeboliti.