Cholm 7.11.43 – 12.1.44

Cholm 7.11.43 – 12.1.44.

Stipati in un vagone bestiame senza riscaldamento, con poca paglia sotto i piedi, abbiamo viaggiato due giorni – per Kielcz – Würst – Radom – Deblino – scendendo a Cholm (Chelm in polacco) 35° 10′ lat. Nord – 23°28′ long. Est – il 7 novembre di primo mattino.

Il viaggio s’era compiuto in condizioni non buone (chiusi a catenaccio) ma neppure particolarmente disagiate; avevamo l’impressione di essere giunti molto all’est, ed il luogo, appena scesi dal treno, ci ha confermato in quest’idea, colpendoci dolorosamente. Un paesaggio triste sotto un cielo grigio, campagna nerastra e morta, chiazzata qua e là dalla neve; qualche miserabile isba qua e là, anch’esse abbandonate; ancor nei pressi della stazione, su una appena accennata altura, qualche dozzina di baracche, dall’apparenza fredda e sconnessa, disabitate: era lo Stalag 319/C.

Non anima viva della popolazione civile; stormi di nere cornacchie per l’aria affumicata; gruppi di prigionieri russi – visi gonfi con occhietti da mongoli – ospiti dei campi vicini.

Questo il quadro. Ma come se la provvidenza avesse voluto lenire l’angoscia che tanta desolazione andava scavando nei nostri cuori, ecco intervenire da un lato la nostra buona volontà e il nostro spirito di adattamento, e dall’altra una inconsueta, veramente apprezzabile premura da parte del comando tedesco del campo.

Formati ordinatamente e alla svelta gruppi di 60 uomini, sotto la personale guida del tenente Willhelm abbiamo subito occupato le baracche; la nostra – capo baracca il capno Kürnmerlin poi optante – era la 47. Abbiamo avuto pagliericcio traversino truccioli scodella cucchiaio lenzuola asciugamano tazzino, legna e carbone per le 2 stufe, carburo per le lucerne ed una minestra.
Nei giorni seguenti ci accorgemmo che ad onta di queste ed altre premure c’era poco da star allegri. Le baracche riparavano solo relativamente: la pioggia ed il vento vi entravano un po’ dappertutto; l’acqua dei pozzi non era potabile; i gabinetti impressionavano male; mancava l’acqua anche per lavarci e per lavare la biancheria.

Ma come ho detto il comando tedesco da un lato e quello italiano dall’altro, hanno fatto il possibile, compresi dei propri doveri di fronte alla natura matrigna, per ovviare ai molti disagi, sì che un po’ la situazione s’è migliorata, ed un po’ si è avuta l’illusione che lo fosse.

Il giorno 11 novembre siamo adunati di buon mattino, con clima assai rigido, per ascoltare la parola del Gen. Coturri che a capo della nota commissione è giunto fin qui per reclutare aderenti alla causa dei tedeschi.
Giornata nera, nerissima per il mio animo. Una delle più brutte della mia vita. Scrivo a Itala, in quell’infausta circostanza, incapace di tener compressa dentro al cuore l’angoscia per tanti giorni soffocata. Una lettera che non potrò ne vorrò spedire, e che riporto tra queste note, con la speranza di portargliela io stesso un giorno.

A Itala ed a Sandro da Cholm – Polonia – nel giorno di S. Martino 1943

Questa sera cerco rifugio in voi, miei tesori, con la ferma speranza di uscire da questo intimo colloquio confortato e sereno, per tirar avanti la mia penosa vita.
La giornata di oggi è stata particolarmente dura, per le sofferenze fisiche e spirituali che ci sono state imposte: esposti al freddo per lungo tempo, mal nutriti e poco coperti, abbiamo dovuto ascoltare ancora una volta la volgare parola di un generale venduto, e ci è stato proposto nuovamente il problema dell’opzione, in termini assai severi, con larvate minacce per quelli che non avessero ritenuto doveroso aderire. Superfluo dirvi miei cari, che io non ho considerato neppur questa volta, e nemmeno per un attimo, l’eventualità di optare, non già perchè io mi sentissi unicamente legato ad un giuramento, ma unicamente perchè io non voglio – io che non ho tradito nessuno – aver a che fare con i tedeschi; mi si consideri unicamente dall’aspetto di ufficiale italiano, ed in questo caso rispondo disciplinatamente. Questo, mia Itala e mio Sandro, il mio pensiero in materia.

Un ora dopo la decisione abbiamo dovuto sgomberare la baracca dove ci eravamo sistemati alla meno peggio, e dopo aver sostato a lungo all’aperto, al freddo intenso, abbiamo potuto trovar asilo alla baracca 16, tra gente fredda in un ambiente freddo, sporco, senza possibilità di sistemazione per questa sera. Il gruppo dei “Cacciatori” è stato così smembrato, con profondo dolore per tutti. Con me sono Concutelli Mattioli e Pardini, anch’essi molto depressi.
Ma non solo le angustie di oggi hanno determinato in me questa crisi di sconforto; bensì tutta la somma infinita di privazioni, di stenti, di contrarietà accumulate nell’animo in oltre due mesi di vita tra i reticolati. Sofferenze di ordine spirituale in primo luogo, quali l’essere considerati traditori, noi che fummo i primi traditi, il non aver notizie dei nostri cari, il sapere la Patria piombata nella rovina dopo tanti sacrifici e tante speranze. Poi le imposizioni di ordine materiale, nelle quali il tedesco rivela tutta la durezza del proprio animo, e il rosario interminabile di “miserie” procurate da noi stessi, forse appunto perchè a noi è negata la sorte di considerarci alla stregua dei prigionieri normali, e siamo tormentati e ci tormentiamo fino all’esasperazione, per questioni le più varie e futili, che non voglio dirvi e che io stesso vorrei poter dimenticare.
In tanta amarezza mi aggrappo, miei cari, all’unica ancora di salvezza, che è rappresentata dal patrimonio – fortunatamente molto grande – del meraviglioso affetto che ci lega tutti e tre vicendevolmente, con vincolo indissolubile.

Il pensiero di voi miei poveri pulcini è sempre sopra ogni altro, tutti i giorni e tutte le ore, con le sue ansie per la vostra sorte, con il cocente dolore per le privazioni che vi sono imposte, e, anche, con qualche sprazzo di luce confortatrice quando rivado alle intime inesprimibili gioie passate insieme e quando mi cullo nell’illusione di ricostruire, in un avvenire più o meno lontano, la nostra vita.
Vi potrei dire che “vivo” sugli interessi di “bene” in otto anni giorno per giorno accumulato, e su una lunghissima serie di anticipi del “bene” che vorrò dimostrarvi, se l’Altissimo vorrà concedermi, nella sua infinita bontà, il ritorno. Sento di possedere ancora un campo ricchissimo da sfruttare, in materia di manifestazioni di affetto, e quando, spessissimo, ci penso mi sento inorgoglire, perchè voi meritate pienamente, incondizionatamente, tutto quanto il mio affetto.
Sono accanto a voi anche con la preghiera sapete, convinto che la Pietà celeste mi elargirà le grazie di cui ho tanto bisogno.

Ed anche circa l’amor di Patria devo dirvi due parole: tu Itala sai e Sandro saprà, con quanto slancio io abbia corrisposto – dopo aver domandato ed insistito – all’appello della nazione in guerra, e con quanta fedeltà l’abbia poi servita in oltre due anni e mezzo di soldato. Avevo un’unica ambizione: poter raccontare al mio figliolo un giorno il mio modesto contributo alla guerra vittoriosa, dalla quale egli e la sua generazione avrebbero potuto trarre qualche beneficio. Ma una crudele sorte ha voluto diversamente, e la Bandiera del 1o Reggimento Artiglieria Cacciatori delle Alpi è stata con le altre – non vinta – ammainata, ed ora non resta altro conforto al mio animo di italiano che quello di custodire gelosamente – attraverso i campi di concentramento di Germania e di Polonia, contro la potenza demolitrice teutonica, – il sacro tricolore, con la speranza di riportarlo un giorno a Foligno.

Vi prego di voler considerare miei amori cari, che non posso ritenermi infelice tutto sommato, fin che posso contare su questi alimenti per la mia anima, quali sono un affetto intenso e meravigliosamente bello per voi, il conforto della Religione, e un fermo sentimento di amor patrio.

Perciò concludo dicendo In alto il cuore, perchè giorni migliori verranno.

Intanto una parola di conforto m’è giunta anche oggi, con l’incontro di De Romedis; egli, ch’è mutilato di guerra, è doppiamente meritevole di ammirazione, perchè era già sulla via del ritorno in Patria ed ha preferito – senza tentennamenti – riaffrontare l’incognita del campo di internamento piuttosto che abiurare ai principi della propria coscienza. Sento che egli mi sarà di sprone a proseguire con saldo cuore e con dignità la strada fin qui percorsa.
Miei poveri amori, voglia il Signore Iddio che io stesso vi possa portare questa missiva, e che io possa essere accanto a voi con la mia persona, nel tepore della nostra casina, il giorno in cui leggerete queste mie parole.

Chè se invece il Fato dovesse esigere che io sia privato del sommo bene del ritorno, ebbene Itala e Sandro miei sappiate che il vostro babbetto si è mantenuto sino all’ultimo giorno forte d’animo, fermo nei suoi propositi, scevro dal prestar anche l’orecchio a lusinghe o minacce, in ogni momento buono sposo, buon padre, buon italiano, buon cristiano; e voi elevate il vostro dolore a sentimento di intimo orgoglio, fatene patrimonio spirituale per la vostra vita, consideratemi caduto per la Vera Patria, l’Italia imperitura, e vogliatemi bene.
Grazie, grazie dal profondo dell’anima per il bene, tanto grande e inesprimibile, che mi avete fatto in tanti anni di vita nostra e in questa sera; ne ho il cuore caldo di traboccante affetto e gratitudine, e mi dichiaro pronto a sopportare con forza e serenità le incognite del futuro.

Bacio le tue mani mia cara Mammetta brava e cara, raccomandandoti in cuor mio di esser molto forte, come mi hai dimostrato di saper essere in ogni circostanza per quanto dura; ti stringo al mio cuore, Sandro bello e caro, esortandoti ad essere bravo ubbidiente e studioso. Tutti e due siete l’unico grande motivo della mia vita: voglia Iddio Sommo che non ci si perda.

Perdonatemi; siatemi fedeli, sappiatemi attendere con fiducia.

Vostro Asticino

Da Cholm fine novembre 1943

La vita nella nuova baracca, situata nel campo nuovo, si trascina triste e monotona, schivo come sono ad uscire dal mio mondo interiore per comunicare ad uomini sconosciuti o non interessanti i miei pensieri. Avendo dovuto occupare un posto di risulta son capitato ad avere un posto letto lontano da quelli dei miei amici Cacciatori, in un gruppo di giovani sottotenenti (parecchi non hanno, da ufficiale, che l’uniforme, avendo compiuto in tutto tre, quattro giorni di servizio di 1a nomina all’epoca della cattura) in gran parte siciliani. Bravi giovani, in fondo, questi focosi isolani, ma così regionalistici, così chiassosi, così inopportuni ed ingombranti! Sono capo del “4° gruppo viveri” comprendente 10 ufficiali, e naturalmente con i miei grado ed età potrei far filar dritto tutti, ma sento che non posso proprio, per la mia indole, prendermi delle gatte da pelare. Così vivo una mia vita fatta quasi esclusivamente dai miei pensieri, ed osservo, spesso senza parteciparvi, l’incessante agitarsi degli umani che mi circondano. E ne vedo di tutti i colori. Io, la mia Itala, il mio Sandro, i miei ragazzi del 1o Cacciatori, la mia mamma, la mia Patria caduta, soli.

Più tardi Concutelli e Mattioli mi faranno accorato rimprovero, ed a ragione, d’aver io stesso voluto questo isolamento, che ha temporaneamente offuscato la nostra cara e salda amicizia.

Bisogna dire che sessanta uomini, sessanta ufficiali prigionieri quali noi siamo, forniscono un interessante campo campo di osservazione, innumerevoli elementi di meditazione e di giudizio.
Credo che mai la vita potrà dare tanta triste esperienza, quanto la convivenza in queste nostre specifiche condizioni; infatti a noi è negato il destino di poterci considerare prigionieri di guerra nel senso comune dell’espressione, nel quale caso i nostri animi, le nostre coscienze ed i nostri corpi potrebbero trovare quella relativa calma che sarebbe tanto necessaria, ed il nostro trattamento in genere sarebbe tutelato da convenzioni internazionali.
Infatti, noi non possiamo dire di essere stati catturati nel combattimento – sfortunato ma sempre esaltante – contro un regolare avversario, e non godiamo delle prerogative che, come abbiamo un po’ tutti ed ovunque constatato sia in campi di Germania quanto di Polonia, sono riservate agli ufficiali prigionieri francesi, inglesi od americani. I quali hanno l’animo in pace, son sistemati bene, ricevono assistenza a larghe mani dal loro Paese, ed attendono senza eccessivi pessimismi la fine del conflitto.

Noi no: noi siamo una massa di agitati, di “sospesi”, di “traditori”, di “soldati di Mussolini”.
C’è ventenni e sessantenni, chi viene dai settori di guerra e chi dai Depositi in Patria, l’idoneo e il meno atto; chi è stato catturato a Torino o a Barletta, chi in Slovenia o in Egeo o a Danzica; chi ha resistito e chi è stato prelevato nella stanza da letto, svegliato dal sonno ignaro; chi ha la famiglia nell’Italia monarchica e chi in quella repubblicana; chi è dell’opinione che il Re abbia tradito, e chi lo difende senza avere elementi per far ciò; c’è chi opta (o non opta) per ferma, intima convinzione di seguire la via giusta, e c’è chi opta (o non opta) per timore della fame o di un avvenire incognito, e va cercando qualche amico o collega che voglia benevolmente giustificarlo; chi inveisce e reclama diritti senza fondamento e chi pratica sistematicamente un pessimismo demolitore senza averne i motivi; chi non regge ai disagi ed agli stimoli dellla fame, e baratta ciò che possiede, anche di molto caro; chi si macchia di azioni disonorevoli, forse vittima di uno spirito già fiaccato per le sofferenze, e chi, per nostra fortuna, sta ancora come torre ferma, che non crolla …

Così tutti i giorni, tutte le ore, in tutti i luoghi si discute, ci si tormenta, si soffre d’un male che in altre condizioni non esisterebbe; ed alla superficie di tanta spirituale sofferenza, di tante debolezze, affiorano le nostre miserie morali, che stanno purtroppo a dimostrare quanto bisogno avremmo di ripudiare il nostro passato nazionale, per ricostruirci dalle fondamenta una nuova vita, su principi di una più grande Dignità.
Episodi di egoismo, invidie, insofferenza, appropriazioni indebite, usure, falsi, delazioni, assenza di carattere e di dignità, abusi di autorità, insubordinazione, vigliaccheria, pettegolezzo, anarchia, bigottismo, incomprensione, si sono ovunque verificati e si verificano, a rendere più spinosa ed amara la nostra via Crucis.

E’ una triste eredità di questa vicenda, un doloroso aspetto di questa nostra anormale condizione, una scuola di vita che avrà – voglio sperare – il beneficio di farci migliori; ed il teutone, che questa miseria ha voluto accentuare con il proprio atteggiamento di scherno, si troverà piombato un giorno in un’altra miseria, più nera e degradante.

Fisso il nome di qualche compagno di baracca, nel desiderio di ricordare, anche in un lontano avvenire, qualche loro caratteristica, e la loro amicizia. V’è un gruppo di Cravatte rosse del 51 Fanteria, che già conoscevo in gran parte, e che sono particolarmente vicini a noi Artiglieri del 1o, perchè compagni d’arme nella nostra bella divisione Cacciatori delle Alpi. Il cappellano Don Francesco Marchizio, di Agliano d’Asti, uomo quadrato, ottimo amico e sacerdote. Il S.Ten Venuta, a me affezzionato e devoto; il veterinario Bosco, anch’egli bravissimo ragazzo; ed in altro gruppo, non così a me vicino, i capitani Russo e De Francesco, i tenenti Giovannini, Ferrara, Alpini e Morgantini.

Con essi rievoco spesso il passato di comune vita militare trascorsa in guerra in quella tormentata terra balcanica.
C’è Iorio Giuseppe di Maddaloni, amico di Tebaldi, educatissimo, sempre triste nel pensiero per la sua mamma; Scarpa, veneto, che poi opterà; Calabrò postale quarantacinquenne carico di pene, in definitiva un ben povero cristo; Pippo Ponzio e Tano Ambrogio grandi amici sempre in faccende a cucinare o a trafficare; Ricci Piero giovane Cravatta rossa honoris causa, sbadato, pittore per aver in compenso del pane; il prof. Col che studia matematica e passeggia lunghe ore su quattro metri di pavimento disponibile; Lisegna il giovane piemontese che di tutto discorre e s’interessa; Zini Lamberti e Solaro di Monterolo capitani di cavalleria; Scioldo capobaracca, che ha il “male del prigioniero” ed è inviso a molti di noi perchè privo di autorità; e poi Francia, Carioli, Bernero, Scazzone, Marocco, Catanzano, Gambardella, Grasso, Amenta, Dominici, Turchelli, Sambolino, Sommadossi, Dominici, Marchionni, Spanò, Fisichella, Cassone, Cardinale, Rossetto, Turchelli, Franchi, Giannetti, Avvenente, Podestà, Spanò, Giardina, Sambolino, Vallini, Salza, Cerruti,

Con i trentini ospiti del campo mantengo contatti frequenti, per quel naturale sentimento che mi lega alla mia terra, ed a tutti porto una parola di serenità e di incoraggiamento. Il gruppo più numeroso, di 13, è sistemato alla baracca 30, duce il Capno Del Vai Francesco “fiemaz”. La concordia tra noi, l’amor patrio e il buon nome nostro sono stati sempre e sono perfetti.
Alla 34, baracca di “cavalieri” m’incontro sovente con De Romedis e con Iachelini; questi, che il caso fece incontrare l’amico al famigerato campo di Münzingen, si prodiga nell’aiutarlo in ogni cosa possibile, data la di lui mutilazione; ed anch’io l’aiuto per quanto posso, in modo che tra l’uno e l’altro gli alleviamo il disagio in cui è stato si ingiustamente messo.

Gli optanti (è problema, questo, che non mi riguarda ne punto ne poco, ma ne accenno a solo titolo di cronaca) che assommano a 240 circa, occupano le baracche 46 – 47 e 48, presso l’ingresso del campo; hanno un vitto di gran lunga migliore del nostro, quasi che il governo cui si son venduti intenda rimetterli in efficienza combattiva con cura intensiva; non di rado essi vendono il pane o le uova ai non aderenti, ricavandone somme favolose, e non si vergognano del turpe mercato.

Talvolta escono a passeggio in città, ed il popolo polacco, ritenendoli italiani veri esprime loro la propria simpatia con saluti e offerta di doni, quando la sorveglianza delle baionette tedesche lo consente. E’ un peccato che proprio questi rinnegati abbiano a raccogliere l’espressione di solidarietà di questo popolo oppresso.
Abbassano gli occhi quando l’incontriamo casualmente, e non è raro sentirli dire che hanno fatto il “salto” per motivi particolari, talvolta puerili.

I servizi al campo sono disimpegnati in parte da nostri soldati, ed in parte dagli ufficiali stessi. La cucina ha il Deus ex machina in un caporale tedesco, investito di autorità praticamente illimitata; 4 ufficiali e un certo numero di soldati nostri provvedono al funzionamento del servizio, in verità con soddisfazione di tutti, ad onta del veleno che le male lingue spargono sovente.
Al trasporto dei viveri nelle singole baracche provvedono ufficiali, giornalmente comandati di corvè: il te alle 6.30; a mezzo giorno la minestra; alle 14 il pane e margarina; alle 17.30 la seconda sbobba. I liquidi son contenuti in secchi di latta zingata, per 20 persone se te, per 10 se minestra. La suddivisione dei viveri solidi presenta lati sempre nuovi, ingegnosi ed interessanti. Sei gruppi di 10 persone sono la base per una prima suddivisione; quindi i pani, la “tafel margarine” ed altro sono affidati ad un componente del gruppo che goda di fiducia di tutti e che ami l’esattezza, il quale taglia, misura, soppesa, compensa fin che raggiunge delle razioni il più possibile uguali; affida quindi il proprio capolavoro alla sorte, chiedendo a un compagno che essendosi voltato è nella condizione di non poter vedere le singole razioni indicate: A chi questa? a chi questa? – Al numero due… al numero nove, ecc. fino a esaurimento. Così ognuno è praticamente soddisfatto. Altri commestibili invece, come lo zucchero, la marmellata o il sale, o il patè vengono distribuiti a cucchiai, per il che vengono adunati intorno al distributore i recipienti più svariati e curiosi.
L’ora della distribuzione di queste povere cose (povere soprattutto per la quantità) è incredibilmente animata; al momento sembra di essere ad una fiera: tutti si eccitano, ovunque si grida. “Quarto gruppo pane! Sesto gruppo manca un recipiente per la marmellata! A chi questa?!” Ed è un via vai, di urtarsi, un insolentirsi che danno il mal di capo.
Poi è la calma, ed ognuno si raccoglie in se stesso per le operazioni suggerite dalla propria educazione, dalla propria forza di resistenza, o dal proprio istinto. C’è chi fa sparir tutto man mano che gli vien consegnato, chi assaggia quasi con timore qualche poco e mai vorrebbe cessare; chi parte con quest’intenzione ma poi da fondo a tutto; chi perde tempo a contemplare, a sistemare, a leccare i recipienti di fortuna; chi affetta con meticolosa cura il pane per poi crostinarlo sulla stufa rovente. Saranno questi 40 – 50 rettangolini di scadentissimo pane (qualche virtuoso raggiungerà, tagliandolo come le ostie, 70 – 75 fettine) a formare il piatto forte (ed unico dopo 1/2 litro di sbobba) per la cena. E l’ultimo crostino, trattato con un po’ più margarina e con un bel pizzico di zucchero, e magari di marmellata, sarà il dolce del giorno, molto buono invero; ciò non impedisce però il verificarsi della “piccola tragedia” giornaliera, che si affaccia sempre nel momento in cui si conclude il pasto. C’è chi riesce a mettere da parte, ogni giorno, qualche crostino per eventuali tempi peggiori, e chi parte col proposito di lasciare un pezzettino di pane per l’indomani mattina; ma molto spesso all’atto di coricarsi è vinto dall’imperiosa richiesta dello stomaco e fa sparir tutto.

C’è anche chi pratica il “mercato nero”. Dirò anzi che la baracca 16 s’è fatta subito, a questo riguardo, una certa fama. Elementi intraprendenti si muovono misteriosamente il giorno e più ancora nella notte, siano essi proprietari di oggetti adatti allo scambio, o mediatori. Ricettatori sono, in massima, i soldati tedeschi della guardia al campo, dei quali taluni, non si accontentano di trattare dal di là del reticolato dove hanno la consegna di rimanere, ma a notte fonda si spingono fin nella baracca, dove con l’aiuto di qualche interprete concludono i loro affari. Sono ucraini, o sudeti o austriaci, visibilmente poco attaccati al loro dovere e stanchi della guerra; acquistano stivaloni, suole, effetti di lana, cedendo pane, tabacco, sigarette, burro. Taluni prigionieri, la mente rivolta ad ingannare l’avversario come questi probabilmente fa per analogo sentimento, sono troppo solleciti ad offrire l’oggetto del mercato, e tutto subisce un deprezzamento deplorevole. Gli orologi, che sono ricercatissimi su tutte le altre cose, vengono ceduti per 4 – 6 chili di mediocrissimo pane, mezzo chilo di burro, un po’ di tabacco. So di qualche nostro collega il quale, andato col favore delle tenebre presso il reticolato, a trattare con certe guardie, è stato sorpreso dopo aver buttato al di là uno stivalone, rimanendo con l’altro e senza alcun oggetto dello scambio.

Il mercato nero diventa naturalmente vergognoso quando è attuato tra noi prigionieri. C’è chi per amor di danaro vende a prezzi esorbitanti degli oggetti che gli sono superflui, o del tabacco; una sigaretta 50 lire – un etto di tabacco 1000 – 1200 lire.
Circa l’acquisto di qualche oggetto in città, mentre qualche soldato tedesco sarebbe disposto a venir incontro prestandosi alla compera, non v’è pressochè alcuna disponibilità, essendo i negozi quasi vuoti. Questo quadernetto, avuto dopo tante insistenze, mi costa cinque marchi tedeschi (50 lire al cambio normale, 250 lire al cambio del campo.)

I servizi igienici al campo lasciano molto a desiderare; solo grazie al nostro spirito di adattamento ed alla buona volontà che il comando del campo dimostra si affrontano le difficoltà senza avvilirsi. Per la pulizia personale giornaliera si va alla “Wascherei”: una baracca aperta al soffiar dei venti, dove son a disposizione delle sgangherate baccinelle di stagno, e talvolta dell’acqua calda, preparata dai nostri soldati. Per la lavatura della biancheria invece, dopo superate varie difficoltà, è stata allestita una seconda baracca – wascherei dove s’ha a disposizione qualche secchio, acqua calda e soda; il servizio è regolato da un nostro capitano (Parisatti) con l’aiuto di qualche nostro soldato. A turno di baracca si fa il bagno e la disinfestazione degli indumenti, nell’apposita costruzione. Occorre anche per quest’operazione una buona dose di sopportazione, perchè in primo luogo tutto si deve fare in gran furia, secondo il costume dei tedeschi, e c’è il caso di rimaner, nudi, in un ambiente freddo per due ore, dopo il bagno, in attesa che escano dai forni i carrelli con gli indumenti disinfestati.
Le baracche – latrine non son certo confortevoli, per quanto siano mantenute pulite.
L’acqua è fornita dai pozzi e non è potabile. Il sapone scarseggia o manca addirittura; se ne riceve un pezzo piccolo al mese, e si consuma presto perchè è di quello di guerra…
Dovrebbe funzionare uno spaccio, ma non c’è disponibilità di materia, perchè “la Germania è nel quinto anno di guerra” è questa la consueta risposta alle nostre legittime richieste.

Al servizio sanitario sono addetti 15 – 18 medici nostri (tra i quali il capno Gregori e il capno Malossini, tridentini) che con scarsissimi mezzi hanno allestito ad infermeria la baracca 21. C’è chi crede di poter affermare che non sono molto sollecite le premure mediche per i nostri malati.

La baracca 18 è stata messa a disposizione per i servizi religiosi, cui attendono, con spirito di abnegazione, i due cappellani presenti al campo: Don Marchizio e Padre Potrich. Il loro interessamento e le notevoli sofferenze morali e materiali dalle quali siamo afflitti hanno il potere di rafforzare in molti di noi i sentimenti cristiani, e troviamo nella pratica religiosa un provvidenziale elemento di elevazione spirituale.

In altri campi vicini sono ospitati dei prigionieri russi. Di tanto in tanto li vediamo entrar nel nostro campo per il bagno e la disinfestazione. Son grosse compagnie di uomini di ogni età, miseramente vestiti, facce giallicce e gonfie per il caratteristico male del prigioniero provocato dalla mancanza di vitamine, occhietti da mongoli, sguardo ebete. Ai piedi portano grossi zoccoli ed incedono trascinando i piedi; anche questa è caratteristica dei prigionieri. Numerosi soldati tedeschi, baionetta in canna vigilano e maltrattano questi poveri esseri cui è negato, tra il resto, il conforto d’aver corrispondenza con le proprie famiglie.

1/12.

Corsini mi dice che la sua mamma ha scritto a Itala. La trepida attesa di notizie è sostenuta da una salda fede. Leggo un saggio critico su Manzoni. Rivivo molti ricordi e trovo conforto.

4/12

Sabato S.Barbara. Festa degli Artiglieri.
Giornata movimentata. Usciamo dal campo, dopo un mese quasi, per recarci a un baraccamento=ospedale a farci la radiografia. Lungo il percorso un prigioniero russo sorride e ci dice: “Amizi nostri”.
Un tedesco della squadra radiografica, forse commosso alla vista delle nostre casse toraciche in secca, mi offre un pane per 13 marchi. Lietissimo ne faccio parte con Concutelli, Mattioli e Pardini. Potremo festeggiare la nostra patrona.

Ci si dice che siamo “Soldati di Mussolini” e come tali non potremo avere l’assistenza prevista per i prigionieri di guerra nè della Croce Rossa internazionale nè del Vaticano.

E’ come dire che non avremo mai assistenza. E’ una minaccia… ennesima.

Concutelli ha avuto la prima lettera, dalla fidanzata – data 2 novembre – Vengo a sapere che Itala le ha scritto. Bene. Anche il Dott. Serini m’ha scritto da Lugano, informandomi d’aver scritto a Itala. Ho tanta speranza e tanta fede.
Alle 16 messa pei nostri Caduti in occasione di S. Barbara. La 1a messa cantata.
A sera, tanta nostalgia e tanta serenità.

5/12

A notte alta, in occasione di S. Barbara, Mattioli + Concutelli hanno offerto la crostata e la vodka. Una povera e deliziosa cosa, che ha avuto il merito di darci un’ora lieta.

6/12

Seconda iniezione antitifica. Giornata piuttosto fredda, e voci, voci, voci. Penso molto a Itala ed a Sandro; il più bel dono di Dio. E per riguadagnare questi tesori prometto di emendarmi e di essere più dritto.

7/12

Bellissima giornata, proprio serena. Mi sono confessato a Don Marchizio di Agliano d’Asti; Itala e Sandro sono più che mai presenti nel mio sofferente cuore. Occorre aver la virtù di pregare – così ha detto oggi padre Potrich – Di pregare con fede (l’encordissa) con umiltà (il pubblicano) con perseveranza (la cananea.)

8/12

Festa dell’immacolata, cui il Pontefice ha consacrato, lo scorso anno, il genere umano. Tanta debolezza fisica, ma tanta forza spirituale, tanta fede, tanta fiducia tanta volontà di bene, tanto bisogno di affetto.

10/12

Itala e Sandro m’hanno fatto sentire il palpito del loro cuore, con le lettere del 10 e 20 novembre, giunte stamane. Rendo grazie a Dio ed a Maria Immacolata per questa grazia, che ha posto fine alla mia angosciosa attesa. Poveri cari pulcini miei, m’avessero potuto mirare in questa memorabile giornata, quanta felicità, quanta commozione, quanta gratitudine avrebbero potuto leggere nei miei occhi per la prima volta bagnati di lacrime che non erano di amarissimo dolore. Grazie, grazie dal profondo dell’anima, mia Itala mio Sandro. Sento che mai mi riuscirà di ricambiare il bene che mi avete dato con le vostre parolette care care care. Unico dolore, per ora, non potervi ringraziare subito, come vorrei ardentemente. Ma la vita vorrà riservarmi anche questa gioria.
Giornata indimenticabile. E’ il mio primo contatto con l’ufficio posta, presso il quale lavorerò. Mi ha portato fortuna. Abbiamo avuto per la prima volta la birra, che bevo in onore dell’avvenimento. Sono pienamente felice, e l’animo mio è meravigliosamente fortificato. L’oppressore può decidere se crede altre forme di costrizione di coscienze, ma non mi avrà collaboratore. Son felice della mia sorte, come italiano, come babbetto dei miei cari pulcini. Poveri cari, sapeste come mi sale spontanea e commossa una parola di ringraziamento al Signore per la vostra salute, per la vostra serenità, per la vostra fede. Potervi baciare, parlare e guardare negli occhi; poi sento che morirei volentieri.

13/12

Mi pare di essere in stato di grazia. Le lacrime di gioia che ho versato sentendomi spiritualmente legato ai miei due Tesori ed i baci che nascostamente imprimo a questi foglietti che mi hanno portato la vita, m’hanno fatto bene. E’ completamente un’altra vita, in cui tutto mi riesce sopportabile, direi quasi serena. Molto mi conforta la religione; sento come una insopprimibile certezza la mano protettrice di Dio posata sul capo mio e dei miei; e la mia fede, ravvivata al crogiolo di questa amarissima vita, si deve rafforzare sempre più. Che Iddio assista sempre me e i miei cari.

Ora il pensiero predominante è quello di trovar il modo di far sapere a Itala la mia gioia e la mia gratitudine. Ma sembra che si debba pazientare prima di poter scrivere. Oggi 3° bagno con disinfestazione e 3a iniezione antitifica.

15/12

Ho risposto a Itala. La preoccupazione che sia capitato qualche malanno ai miei cari coccoli è più che mai viva. Aspetto altre notizie.

17/12

Ecco un biglietto di Itala, datato 23 nov. Sono naturalmente molto contento; ma anche indignato contro quel cane d’un padrone di casa che ha costretto la mia famiglia a sloggiare. Kleinschek è il nome che devo ricordare!

18/12

Giornata della fede. Penso al giorno freddo e nevoso in cui, otto anni orsono, Itala ed io accorremmo ad offrire il sacro oro alla Patria, perchè essa fosse più grande. Quanto ardore patrio, quanta commovente devozione allora; anche ora però, dopo tante vicende anche dolorose, è sempre vivissima nel cuore fidente la fiamma d’amore per l’Italia vera. A cose finite si riprenderà la vita, al grido che non muore: Viva l’Italia

Scrivo una lettera a Itala ed una cartolina alla mamma.
Una piccola tragedia per De Romedis: ha rovesciato la minestra che doveva essere la sua cena…
Penso che dopo la guerra – se l’Altissimo mi concede il ritorno – sarà bello e doveroso esaminare la possibilità di far restaurare il capitello della Fontana. Potrà essere dedicato alla Madonna immacolata, e sarà in questo caso il mio contributo di riconoscenza per l’assistenza che essa mi offre.

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E’ stato detto che amare è bello, doloroso e necessario.

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22/12

Ricevo un biglietto da Itala, con l’augurio per Natale. E’ la più grande consolazione che io possa avere.

25/12

Natale tra i reticolati. Tanto freddo nell’aria e nel cuore. Unico tepore l’affetto dei miei cari, che sento vicinissimi a me in questo giorno. Unica fede nell’assistenza dell’Altissimo, per una fine lieta di questo amarissimo esilio. Unica certezza la consapevole saldezza del mio cuore di fronte ad ogni forma di costrizione che ancora mi possa venir fatta. Non potrò mai optare. Ciò ripeto ancora una volta, in vista dell’arrivo, preannunziato per il 31 dicembre, di una nuova commissione cappeggiata dall’ex prefetto Vaccari per raccogliere altre adesioni al movimento repubblicano.

Il pomeriggio della vigilia è passato abbastanza serenamente. Molti auguri sono stati scambiati; alle 19 abbiamo ascoltato messa in un atmosfera di commovente unione spirituale. La nuda baracca 18 presentava un aspetto meno desolato del consueto, facendo mostra di un modesto presepe di cartone e di una mezza dozzina di quadretti, allestiti da internati artisti. Bello il lavoro di Tommasi di Villazzano, a fuligine sul fondo d’una ciotola rotta. Per la gran folla Don Potrich era costretto ad entrar dalla finestra per avvicinarsi all’altare. Messa di Perosi con accompagnamento di fisarmoniche, dirette da Don Marchizio e coro in buona parte di trentini.

Nel corso della notte molti ufficiali si sono affacendati a preparare i dolci natalizi, con gli ingredienti messi da parte a prezzo di sacrifici: pane nero, margarina, zucchero.
Io non ho preparato nulla, ritenendo essere un dovere, oltre che un diritto, il consumare giornalmente ciò che la generosità del Terzo Reich ci passa. A mezzo giorno di oggi ci siamo tuttavia seduti al tavolo, coperto con un lenzuolo crucco, noi del 4 gruppo viveri: Concutelli Ambrogio Iorio Calabrò Scarpa Dominici Cassone Ponzio Fisichella Spanò Tebaldi ed io. Una buona minestra (pasta ed orzo) un tozzo di pane, un po’ di crauti crudi e patè di salame. Poi il te.

Il Comando Tedesco, interessato alla corresponsione di alimenti straordinari per la circostanza, non ha creduto bene di aderire. Meglio così: non dovremo ringraziare il Grande Reich neppure per questo.

Il pensiero dominante è quello per i due cari pulcini lontani, che pure avranno un triste natale. Poveri cari, quanto male al cuore fa il saperli in ansia per me assente!
Poter essere presso di loro, nella tiepida casina, e sentirne le carezze e la voce e gli sguardi dopo tante sofferenze! Quanto quanto bene a quelle sventurate creature! E quanta pazienza occorre avere ancora, quanta fede, quanta fiducia! Mi sento sempre ben preparato e forte d’animo. Il sole dovrà pure tornare a risplendere nel cuore, come oggi è uscito un poco, ad illuminare i reticolati, che per la nevicata della notte s’erano inargentati perdendo l’abituale aspetto di spinoso legame. Restano quei maledetti pali a mo’ di forca, in lunga infinita fila… ma lascieremo anche quelli!

31/12

E’ giunta la commissione Vaccari per reclutare aderenti per l’esercito repubblicano e per le S.S. Non ho visto nessuno, come cosa che non mi riguarda. Alla baracca 16 hanno optato Scarpa e Marchionni. Malossini, roveretano si è mestamente buttato al di là.
Don Marchizio ha cantato il Te Deum di fine d’anno. Qualche gruppetto ha cantato, a sera, delle canzoni nostalgiche, ricordi del passato, bisogno del cuore di esprimersi, nell’insopprimibile bisogno di affetti. La donna amata e la Patria lontana hanno gran parte in queste canzoni.

Io non riesco a dimenticare l’angoscia per i miei cari e non partecipo all’allegria dei compagni. Sono soltanto lieto in cuore, che l’anno infausto per i molti malanni portati alla mia famiglia, se ne vada. Invoco dall’Altissimo protezione per l’anno nuovo.

1/1/44.

Giunge notizia che gli ufficiali effettivi saranno prossimamente trasferiti in un altro campo, in quel di Deblirco. Concutelli ne è addoloratissimo, ed altrettanto siamo noi, che vediamo nel provvedimento un altro atto per demolirce la nostra resistenza. Il tricolore della bandiera del 1° Artiglieria, che ho dato in custodia a Concutelli, resterà a lui, che ne è orgoglioso. Ricci e Pecchioli, venendo a salutare il simbolo del nostro nome di Cacciatori delle Alpi, versano lacrime di commozione. A Foligno, un giorno, potremo baciare nuovamente la nostra ricostruita Bandiera.

Intanto, sorretto dalla fede in Dio e dalla speranza in un avvenire migliore sopporto serenamente le sofferenze di quattro mesi di prigionia, lieto di sapere che i miei cari sono accanto a me col pensiero più affettuoso. Il fisico è deperito per le privazioni materiali e morali cui siamo soggetti, ma l’animo è forte e saldo, pronto ad affrontare qualsiasi prova futura.

La baracca 16, che ospita 60 ufficiali, è come le altre un rifugio poco confortevole; due stufe fanno miracoli, col poco carbone a disposizione giornalmente per riscaldare l’ambiente ed i molti barattoli che con ingegnoso sistema vi vengono appiccicati. Nelle notti di vento c’è chi non dorme sui castelli bipiani, e deve alzarsi a trascorrere qualche ora accanto al fuoco. Chi è di guardia alle stufe assiste, dalla mezzanotte alla sveglia, ad un intenso andirivieni di gente che deve uscire per effetto del te o della sbobbadi rape ingurgitati… Alle 6.30 l’arrivo del te (secondo e quarto gruppo te…) sveglia tutti; salto giù dal mio alto lettino che mi ha procurato il nome di arcangelo (capo degli angeli) ritiro la mia parte di acqua calda (tisana – tiglio) esco a lavarmi al pozzo e, quand’è aperta alla “wascherei”. Alle 7.30 appello adunati nella baracca accanto, la 15. Vi trovo Gottardi e De Martino. Alle otto parto per la baracca 35, sede del cosidetto comando italiano del campo; ritiro la posta in partenza, raduno i miei collaboratori e uscendo dal reticolato in virtù di un lasciapassare mi reco all’ufficio posta per il lavoro quotidiano.
Il signor Kurz ed i suoi sottufficiali sono ottime persone che sanno comprendere le nostre necessità. Sono correttissimi nei rapporti con noi italiani e dimostrano persino della simpatia. Lavoriamo serenamente alla corrispondenza destinata alle famiglie nostre ed a quella che giunge dall’Italia a portare nel cuore di ognuno di noi l’atteso raggio di sole. Gli interessi dei nostri 1943 ufficiali vengono in ogni istante presentati e spesso risolti con soddisfazione di tutti. Io sono personalmente molto lieto di poter contribuire ad alleviare ai compagni di prigionia le ansie derivanti dalla mancanza di notizie da casa, e con tutti sono paziente e gentile, comprendendo l’importanza che il problema assume per ogni singolo caso. E’ stato dimostrato invero che c’è della gente particolarmente bisognosa di assistenza; cose che solo in prigionia possono verificarsi.

Alle 11 o poco dopo si torna in baracca per la minestra, che sovente lascia insoddisfatti, e s’ha più fame che pria… Quindi si torna a lavorare fino alle 15.30 ora del secondo controllo. Vien quindi presto notte, ed il tempo non trascorre mai; l’illuminazione è scarsa, a carburo. Moltissimi sono attorno alla stufa ad abbrustolire fettine di pane, a discutere infinite volte gli stessi problemi inutili, ad accalorarsi, a far progetti di ordine gastronomico per il dopoguerra, a riscaldare la terracotta della bianca scodella che è destinata ad accogliere, alle 17.30 la seconda ridottissima minestra. I 300 grammi di pane costituiscono con questa la povera cena: crostini spalmati di margarina, che di tanto in tanto qualcuno chiama burro; qualche boccone con margarina e zucchero, riscaldato alla stufa, costituisce il dolce. Poi è finito tutto per la giornata. C’è chi tenta di lasciare qualche culetto per l’indomani, ma il tormento delle prossime ore è tale che è bene liberarsene. Poi, il problema è arrivare fino alle otto almeno. Si cerca di leggere, e spesso si smette, c’è chi discute e secca il prossimo. C’è chi fa il nottambulo perchè di giorno ha dormito, e pur egli secca il prossimo; c’è chi esce a trafficare attraverso il reticolato qualche indumento per pane e tabacco, con le guardie tedesche che il mondo crede incorruttibili…
La mia brandina mi accoglie e dopo la consueta lunga serie di pensieri, or lieti or tristi (più spesso tristi) per i miei cari pulcini lontani pei quali prego sempre iddio, viene il sonno agitato, tra il resto, dallo stomaco che reclama. Così è passato ancora un giorno. Un giorno in lontana terra polacca, a 1600 chilometri dalla patria, vittima della più grande infamia che i tedeschi avessero potuto escogitare.

Il domani sarà monotono e triste come l’oggi; forse di più. Ma lo spirito sa ancora trarre forza e resistere, perchè la amarissima vicenda abbia a giungere all’unico fine desiderato: riabbracciare Itala e Sandro, che sono la mia vita.

L’11 gennaio, con la partenza degli ufficiali in S.P.E. per l’altro campo mi separo dal carissimo amico Concutelli. Il gruppo degli artiglieri cacciatori è in smembramento e tutti ne siamo comprensibilmente addolorati.

Il 12 gennaio, a conferma di un preavviso che tante discussioni, speranze e illusioni aveva suscitato, anch’io parto dal campo di Cholm, con un gruppo di 300 ufficiali scelti come i più anziani di età. Lascio tanti amici e colleghi, sola cravatta rossa e colgo l’occasione per unirmi al gruppetto di tridentini, lieto di potermi rendere utile a de Romedis che più di ogni altro porta la pesantissima croce trascinando da un capo all’altro di questo paese la dolorante mutilazione per gloriosa ferita in combattimento. Compiute in gran fretta le varie operazioni ormai d’uso, usciamo dal campo nel primo pomeriggio, raggiungiamo la stazione che ci aveva visti giungere oltre due mesi or sono, e prendiamo posto, in 43 in carri bestiame forniti di paglia, di stufa e di recipiente. Due graduati teutonici, buoni diavoli in fondo, sono con noi di scorta. Lasciamo nella notte questa località della Polonia, riconoscendo che il comandante del campo ha fatto in ogni circostanza il possibile per renderci meno dura la vita. Non conosciamo la nuova destinazione, ma abbiamo nel cuore la segreta speranza di finire in un campo che ci offra migliori condizioni di vita. Molte congetture si fanno in proposito. Chi parla di Leopoli (Lamberg) dove la famosa cittadella sarebbe pronta ad accogliere, con i molti internati già ospiti, anche noi; questa probabilità non trova però credito, sembrando a molti di noi che il provvedimento della nostra partenza debba essere messo in diretta relazione con lo sviluppo delle operazioni militari al fronte est, dove i Russi avanzano sistematicamente, se pure con lentezza, avvicinandosi al territorio polacco. E chi ama pensare che si andrà in Austria… Siamo comunque contenti di muoverci, perchè nel moto è la vita. Il lentissimo viaggio, che richiama alla memoria i racconti dei nostri vecchi prigionieri in Russia l’altra guerra, prosegue per due – tre – quattro giorni, sotto scorta benigna fortunatamente, sull’itinerario Krasnistaw – Rawa – Ruska – Iaroslav – Przeworsk – Landkau – Reichshef – (minestra di pasta bianca) Tarnowa – Cracovia. Particolarità di questa prima parte del viaggio: lentissimo procedere, manifestazioni di simpatia da parte della popolazione polacca, condiscendenza da parte della scorta e particolarmente del suo amabile tenente comandante, clima decisamente buono in relazione alla zona e alla stagione, certezza ormai che non si raggiungerà Leopoli e che si viaggia verso il Reich; ed infine operazioni di scambio oggetti svariati per pane e tabacco tra la massa degli internati e un gruppo di famiglie ucraine che viaggiano agganciate al nostro treno, e tra la popolazione polacca che sfida i calci di fucile dei tedeschi per manifestare la propria simpatia. Un vecchio macchinista mi disse in una piccola stazione polacca: Viva l’Italia!
Dopo Cracovia, col cambio della scorta e in procinto di entrare in territorio germanico ci è stato imposto un regime di estremo rigore. Sotto la pretesa della “Diziplin” il teutone ha tirato il catenaccio esterno ai vagoni, aprendolo dopo 24 ore per i bisogni corporali; così il viaggio è proseguito per il quinto, il sesto e il settimo giorno, senza possibilità di scendere, ridotti ormai sporchi ed abbrutiti, attraverso la Germania, in territorio ostile. Ad una fermata un ferroviere, richiesto gentilmente del nome della località, si limitò a gettare una pietra contro il vagone (La pagherà…)
Transitiamo così da Ehrenforst – Kaltoviz – Hendebrek – Neustadt – Keisse – Reichshalle – Lagau – Forst – Cottbris – Finsterwalde – Dessau – Celle – Soltau – Wietzendorf nell’Hannover, tra Berlino e Brema, dove giungiamo alle 10 del giorno 19 gennaio.