Situzione in Vallarsa agli inizi del ‘900

Agli inizi del 1900 la popolazione della Vallarsa superava le 3.500 unità suddivise in 39 frazioni. Il settore agricolo-forestale costituiva la base portante dell’economia anche se non mancavano le attività artigianali, mentre una notevole integrazione di reddito proveniva dall’emigrazione stagionale nei paesi di lingua tedesca dell’impero.

Rispetto al secolo precedente si era diffuso in valle un maggior benessere, anche se le condizioni di vita rimanevano precarie. In effetti le entrate annue di una famiglia tipo consistevano in: una “pilota de bore” tagliate nel proprio bosco. 5-6 forme di formaggio fatte nei caseifici dove giornalmente si portava il latte delle vacche, il burro relativo, un quintale più o meno di frumento, alcuni quintali di patate e mezzo maiale perché in genere era allevato in società. L’uva che si produceva veniva portata nelle “castelae” o brentoni sul carro, fino a Lizzana nelle cantine Tomazzoni; qui la pigiavano e veniva mandato il mosto in Austria (Albino Aste). Inoltre c’erano i “cavaleri”, a me casa i ne tigniva anca n’onza e a casa de me mama ai Stagneri n’onza e meza. Nelle case le stanze sono state costruite in misura che ci potessero stare le “arele” e tutto quanto serviva per i “cavaleri”. Le “galete” venivano portate a Rovereto e si prendeva due fiorini, che era pari a quattro corone, al kg. Se “la andava ben” con il ricavato delle “galete” si poteva vivere tutto l’anno. C’era anche un commerciante delle Valli che ci portava la “somenza” e poi veniva a ritirare le “galete”(Egidio Zanolli).

Frequentemente il legname non veniva tutto venduto, ma a causa delle difficoltà di trasporto (dopo l’alluvione del 1882 non era più possibile la fluttuazione della stessa lungo il Leno) era utilizzato per fare carbone e calce. Per fare quest’ultima si utilizzavano le “calcare” che venivano cotte in generale in primavera o in estate. La più grande “calcara” era alla “busa del confine” e teneva 500 q. In generale si utilizzava legna minuta o di poco pregio (mughe, ginepro, ecc.), spesso veniva utilizzato anche lo “strame”. La cottura durava quattro o cinque giorni e bisognava alimentare il fuoco giorno e notte (Giuseppe Gios).

Dal momento che i terreni migliori attorno al paese erano tutti utilizzati come arativo, per l’alimentazione del bestiame durante il periodo invernale gran parte del fieno proveniva dai prati d’alta quota. Ogni frazione della valle aveva una zona in cui ai propri censiti era riservato il diritto di fienagione. Spesso le porzioni di terreno da falciare venivano assegnate annualmente. Così Piano e Parrocchia avevano “Costabela”, “Zachelon” “Boscoscuro” e “Rachenote”. Ogni tre anni si radunava la gente dei due paesi nel prato dietro i “Gioser” e ogni famiglia – compreso il prete – aveva una parte. Dato che era impossibile fare parti uguali si procedeva così: le migliori venivano messe all’asta e il ricavato serviva per compensare le parti peggiori. Tutte le famiglie il giorno di San Rocco andavano la mattina a Messa poi portavano la slitta fino in cima a “Val de fen” e il giorno dopo iniziava la fienagione (Giuseppe Gios).

Nei lavori agricoli era impegnata tutta la famiglia, anche i ragazzi venivano utilizzati secondo le loro capacità, in alcuni casi in maniera del tutto insolita. Infatti ad Anghebeni dopo la raccolta delle noci iniziava il lavoro del “fa oio”. Questo consisteva in una grande macina munita di legni a formare una scala e mossa dal peso dei ragazzi che, tornati da scuola, trovavano qui il modo di divertirsi rendendosi utili. Dovevano sempre correre sulla scaletta mano a mano che la ruota girava. In cambio potevano mangiarsi una fetta di panelo cioè di ciò che rimaneva dei gherigli pressati e privati dell’olio. Olio che serviva sia come condimento sia per alimentare i lumini (Angelina Sartori).

Oltre ai lavori dei campi parecchie famiglie erano interessate anche a piccoli lavori artigianali. La Valle era quasi autosufficiente nel produrre tutte quelle cose necessarie alla vita, perché vi si trovavano espresse tutte le arti. Ad Anghebeni, per esempio, c’erano diversi falegnami – i “Conti” e i “Contini” – lavoravano le assi della segheria della Sega e fornivano mobili a tutti. Il “Pecia” e i “Tontri” davanti al loro deschetto aggiustavano “sgalmere” e zoccoli per piccoli e grandi, confezionavano pure scarpe su misura per gli sposi. Lungo la statale “el Mino” nella sua nera fucina era sempre pronto a battere il ferro per ferrare buoi, cavalli e muli. Le botti di tutti i tipi, le “brente” per la “liscia” e i “cubeli” per fare il burro erano opera dei “Michelini”. Il “Toni sartor” e sua moglie confezionavano abiti e vestiti per il lavoro o per la “festa” e rivoltavano pure quelli usati e sbiaditi. Da Sottoriva venivano le tele per lenzuola, asciugamani, tovaglie. Erano ruvide, ma sfidavano il tempo. Sul grande telaio i “Salvani” intrecciavano i fili di canapa e di lino coltivati, in parte, nei campi della Vallarsa. “Ai Stagneri” là dove affioravano alcune piccole sorgenti c’erano le macere per macerare la canapa ed estrarre le fibre. Durante i lunghi “filò” invernali le donne le filavano poi con la mulinella. C’era persino un orologiaio, aggiustava sveglie e pendoli; riusciva sempre a farli funzionare magari con qualche rotella in meno. C’era, inoltre, un grande forno a legna serviva per tutto il paese in quanto, a giorni fissi, ogni famiglia poteva cuocere il pane che poi durava per più di una settimana (Angelina Sartori).

I cereali prodotti, in misura non sufficiente al fabbisogno di tutta la popolazione della Valle, venivano macinati dai mulini posti lungo il Leno o i suoi affluenti. C’erano dieci mulini: uno a Camposilvano, uno a Speccheri, tre alla Busa, cinque sul Leno tra Sottoriva e Valmorbia. Il mugnaio veniva pagato con una parte della farina (Albino Aste).

Nonostante la buona volontà, le continue fatiche, gli stratagemmi escogitati le risorse disponibili in loco erano troppo scarse per sostentare, sia pure ai livelli minimi di sopravvivenza, una popolazione in continuo aumento. Quale risposta ai crescenti bisogni si sviluppò l’emigrazione stagionale nei paesi di lingua tedesca dell’impero. Emigrazione favorita anche dall’attuazione da parte del governo imperiale di un vasto programma di lavori pubblici. Si andava a lavorare in Boemia, sui confini della Slesia. Si costruivano “roste” sui torrenti e si facevano altri lavori forestali. Il capo era un certo Antonio della Costa; questo come alcuni altri, era da tanti anni che andava là ed era esperto del lavoro e del luogo; si impegnava a raccogliere squadre di uomini di qui e portarli là. Così si partiva in squadre di 50-60 uomini. Il periodo era dalla primavera all’autunno. Gli uomini prendevano cinque fiorini; io che ero ancora giovane ne prendevo due (Egidio Zanolli).

Il lavoro era duro, massacrante – mio padre mi raccontava che in due giorni aveva “strazzato le braghe” a forza di usare il badile per scaricare vagoni di ghiaia (Giuseppe Gios) – ma serviva per sfamare l’intera famiglia. Durante l’estate venivano le donne a comprare da mangiare e dicevano: pagheremo quando ritornano gli uomini dai lavori (Angelina Sartori).

In alcuni casi era possibile trovare lavoro anche più vicino a casa. Uno dei lavori è stato anche l’impianto dei pini su quel costone fra Porte e Rovereto; durava due, tre mesi all’anno, in primavera, e consisteva nel collocare una piantina e una “gaia” di terra nella buca fatta dagli uomini col piccone nella roccia (Albino Aste).

Infine nei primi anni del 1900 andavano a lavorare fuori Valle pure le donne. In genere era a Rovereto e nella Vallagarina. Erano lavori stagionali come la raccolta dei sarmenti, la lavorazione dei bozzoli, le vendemmie, la lavorazione del tabacco (Angelina Sartori). Così a 14-15 anni ho fatto il primo lavoro a raccogliere le sarmente a Brancolino. Ricordo che ho sofferto tanto freddo perché era primavera presto. Assieme avevo mio cugino Olivo che faceva il mio stesso lavoro. Ricordo che quando siamo ritornati a casa a piedi eravamo orgogliosi del nostro, si può dire, primo guadagno: un soldo da cinque fiorini che tenevamo in tasca un pezzo per uno, durante la strada, per gustare la gioia di avere in mano qualche cosa dopo tanta fatica. Ricordo anche il ritornello che cantavano quelli della Vallagarina: … “fioriran le mandolere, vignerà le Valarsere for dal conte a sarmentar…”. A 16 anni, nel 1907, sono andata a Trento a lavorare alle “galete”. L’anno dopo sono andata a Villalagarina a lavorare alla masera tabacchi. I contadini portavano i colli di foglie di tabacco e noi dovevamo scegliere quelle di prima, seconda e terza qualità… (Angelina Sartori).

In alcuni casi, soprattutto per la parte alta della Valle, una fonte di guadagno era costituita anche dal contrabbando. Si portavano in Italia tabacco e zucchero e si riportavano stoffe e vestiti. Il fenomeno aveva aspetti e dimensioni perlomeno curiosi. A Piano nella casa del “Brizio” al piano terra c’era l’osteria e il magazzino a cui si rifornivano i contrabbandieri, al primo piano c’erano i finanzieri. Alla domenica, poi, giocavano a carte assieme e si prendevano vicendevolmente in giro dicendosi gli uni più furbi degli altri (Giuseppe Gios). L’attività presentava, comunque, dei rischi mio zio andò con un carico di tabacco per guadagnare i soldi per un vestito, ma i finanzieri sequestrarono il carico, così dovette fare altri tre viaggi per pagare il tabacco perduto (Giuseppe Gios). Naturalmente, poiché c’era di mezzo un confine, i rischi erano differenziati. In Italia se un contrabbandiere veniva preso, veniva messo in prigione, da noi gli sequestravano solo il carico; ma mentre di là i finanzieri avevano un posto fisso in cui fare la guardia e non potevano spostarsi, da noi si appostavano ogni giorno in un posto diverso e spesso inseguivano con successo i contrabbandieri. Comunque i nostri per non correre troppi rischi arrivavano solo fino al confine e lì scambiavano la merce con “i taliani”. Qualche volta poi, per vendicarsi dei finanzieri, riempivano i sacchi con foglie secche, si facevano inseguire e al momento della cattura rotolavano i sacchi giù per il pendio. I sacchi venivano inseguiti dai finanzieri che “così i se stracava” per niente (Giuseppe Gios).

Nonostante tutte le difficoltà la vita della comunità risultava vivace. Naturalmente, anche allora, non mancavano le beghe politiche. Una delle più clamorose sorse in seguito alla decisione, presa dai consiglieri comunali il 10 settembre 1907, di spostare la sede del comune da Parrocchia a Raossi. Le polemiche furono tali da spingere alle dimissioni i rappresentanti comunali fautori della decisione. Costoro, comunque, in un manifesto indirizzato Al Popolo di Vallarsa ribadiscono la bontà della loro decisione sostenendo che l’ufficio comunale in questa nuova sede oltreché trovarsi nel gruppo più popolato della Valle, vicino all’I.R. Comando di gendarmeria, nella casa stessa del Medico condotto, che ha pure l’armadio farmaceutico, viene a trovarsi di fronte all’I.R. Ufficio postale, dal quale, nel tempo estivo potrà avere la corrispondenza da Rovereto due volte al giorno. Da notarsi che all’Ufficio postale, dal settembre p.p., fu aggiunto l’Ufficio telefonico pubblico, con servizio anche telegrafico, l’importanza del quale cresce di giorno in giorno.