A Mitterndorf

La sosta a Calliano durò un mese. Nel frattempo è scoppiata un’epididemia fra i bambini, non si sapeva bene cosa fosse. Tutti i ragazzi – anch’io – furono messi in un lazzareto. Mia mamma è rimasta fuori sola. Lì è morto un fratello di due anni. Mi ricordo che mia mamma veniva alla sera sotto finestre per vederci e chiedeva dov’era Marcello e noi a dirle che era a letto; sera dopo ha chiesto di farglielo vedere e noi presolo in braccio, l’abbiamo portato alla finestra. “No vedè ch’el more! la ga dito”. La mamma ha potuto avere il permesso di venire con noi (ha fatto dentro anche lei la quarantena). Mio fratello è vissuto due giorni poi è morto. L’ha portato via, avvolto in un lenzuolo, un medico. Dalla finestra l’abbiamo visto che andava verso il cimitero (Emilio Maraner).In settembre siamo partiti col treno merci: tre giorni di viaggio e l’arrivo a Mittendorf – villaggio di mezzo – holzstadt – città di legno. Le baracche erano tutte in legno con delle suddivisioni di 10 stanze e ogni stanza era occupata da 15-18 persone. “Managro” era chiamato il rancio che ci davano. Dopo siamo passati in altre baracche nuove e costruite meglio (Emilio Maraner). Le strade fra le baracche erano alberate e per terra c’erano le assi perché era una zona paludosa e quando pioveva era tutto fango (Assunta Raoss).Nella precaria sistemazione delle baracche la vita era piuttosto dura. Il cibo era scarso; passavano quelli della cucina a distribuire il rancio: minestra, qualche pezzetto di carne di maiale, una pagnotta al giorno che si doveva dividere fra quattro persone, qualche volta una piccola misura, pari a due tazze di caffè, di farina gialla. Noi si metteva da parte questa farina fino a che se ne aveva abbastanza per fare la polenta. Si era anche liberi di andare fino a Vienna, di spigolare nelle campagne, di raccogliere le patate lasciate nei campi (Maria Martini). Tuttavia a poco a poco ci si cominciò ad organizzare. Se qualcuno di nascosto, tentava di bruciare qualche asse per fare più caldo, subito accorrevano le guardie costituite da nostri uomini che per qualche motivo non erano stati richiamati (Maria Martini).

Coloro che potevano hanno cominciato a lavorare. Io con tante lavoravo in una fabbrica di vestiti. In un salone si facevano vestiti per uomo in un altro vestiti per donne. Il lavoro era ben organizzato; il direttore era tedesco. In tre ore era fatto un vestito. Mi ricordo che i ferri da stiro e tenuti caldi su un fornello, si metteva lì quello freddo e si ritirava quello caldo così sempre di continuo. Vi era anche una fabbrica di reti da ricamo, una calzoleria, una lavanderia pubblica (Assunta Raoss).

Per i più giovani fu organizzata la scuola. I ragazzi andavano a scuola da maestri italiani fino alla quinta classe, ma chi voleva studiare ancora poteva; di Vallarsa parecchi hanno studiato. Nelle classi dei ragazzi più grandi un giorno è passato un capitano che ha invitato gli scolari a frequentare una scuola diretta da lui allo scopo di imparare un mestiere, diceva, ma le cose non andarono così. Ci hanno dato una divisa: cappello grigio-verde con penna di gallo, calzoni alla zuava e fasce, scarpe con legno sotto, zaino, borraccia, tutto come un vero soldato tranne il fucile. Ci facevano l’addestramento e le marce con gare di corsa. A casa, dai nostri, ci lasciavano andare solo alla sera per trovarli. La scuola durava 6 mesi e ci chiamavano Scaut. Mi ricordo la canzone che cantavamo:

E su, e su, e su,
en tirol no se va più
ghe rota la ferrovia
e no i le giusta più
ma noi la giusteremo
coi soldi dei francesi
noialtri tirolesi
en tirol vogliamo andar
(Emilio Maraner).
 
La dura vita dei profughi fece molte vittime. I nostri morti nelle baracche sono stati tanti; è rimasto un cimitero solo per loro (Emilio Maraner). Ogni tomba portava una croce di legno con il nome. Quando dopo la nostra partenza il baraccamento fu disfatto, i morti del cimitero furono levati e portati nel cimitero di Mittendorf paese (Assunta Raoss).